Intervista con la scrittrice Michela Murgia: «Credo che al governo della Sardegna ci voglia qualcuno che non abbia niente da perdere nel compiere le scelte»
SASSARI - «Per adesso non c'è la mia candidatura ma esiste la mia disponibilità e un'ossatura di progetto che ho dichiarato su mandato politico di Progres». Pochi giri di parole, schietta e determinata, Michela Murgia non lascia vie di fuga sulla sua decisione di partecipare alle elezioni regionali. Ci vuole ancora tempo e per avere una certezza bisognerà attendere il 3 agosto, data in cui la scrittrice scioglierà la riserva. Nell'attesa c'è tanto da dire, sulla Sardegna, su un impegno politico e sulle scelte da compiere in un momento storico in cui le certezze sembrano contarsi sulle dita di una mano. La scrittrice di "Accabadora" e del suo primo romanzo "Il mondo deve sapere, diario tragicomico di una telefonista precaria", ha incontrato
Sassari News per un'intervista.
Nessuna novità sulla sua candidatura, a che punto siamo?
«Mi è stato chiesto di verificare la condizioni per la costituzione di una coalizione intorno al mio nome e ad alcune linee progettuali che non sono ancora un programma, per capire se ci sono gli estremi per esprimere davvero la candidatura. E' una fase esplorativa in cui si cerca di capire quali sono le dimensioni esatte, almeno potenziali di questo tipo di operazione. Formalmente non c'è una certezza».
La scelta di entrare in politica si distacca dal suo passato?
«Ho insegnato per sei anni e fatto tanti altri lavori tra cui dirigere il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica, il portiere notturno e la cameriera. Tanti mestieri e scrivo da appena sette anni. Fra le cose che ho fatto, la scrittura è stato l'atto più politico. Il mio esordio è stato un testo di denuncia del precariato nei call center. Non c'è cesura tra il raccontare le cose anche per evidenziarne le problematicità e cercare di agire. La parola è già azione. Il call center denunciato nel primo libro ha chiuso entro l'anno dopo le denunce e il lavoro dei sindacati. Facendo luce su una cosa che nessuno vedeva ha costretto la stessa a rivelarsi nella sua realtà. Non c'è niente di più politico di questo. Se c'è una differenza tra la politica e la letteratura è che la prima deve agire sul visibile e a volte sul prevedibile, la seconda deve parlare di quello che non si può dire».
Quali punti affronterebbe in un eventuale progetto politico?
«Ancora presto per dirlo. Gli impegni si concordano con le persone che sottoscrivono il patto civile alla base di questo progetto. Sarebbe prematuro dirlo ora. E' chiaro che li abbiamo in mente».
Che idea ha della politica di questi anni?
«Facile dire che è una brutta idea. La verità è che abbiamo visto diverse sfumature di azioni politiche negli ultimi quindici anni: alcune dimenticabili, altre salvabili e migliorabili. Non è vero che la politica è qualcosa di negativo ma è vero che spesso abbiamo avuto cialtroni a svolgere un compito nobilissimo, quello di occuparsi del bene comune. Non sono preda di quel culto della novità per cui chi non ha mai fatto politica la farebbe meglio rispetto a chi ha già esperienza. Abbiamo visto che in questi ultimi anni questo percorso ha portato molte persone a governare senza avere le minime capacità per farlo semplicemente perché erano nuove. Il principio di realtà esige quello di competenza».
E la politica sarda?
«Quello che manca è una prospettiva, una visione. L'impressione è che le persone che ci sono, da molto o da poco, competenti o non, siano capaci di lanciare il sasso solamente tre passi più in là di sé. La sensazione è che non siano in grado di immaginare una Sardegna tra cinquant'anni e preventivare ora i passi necessari da fare perché quella prospettiva possa iniziare ad avere una possibilità di realizzarsi».
Quale sarebbe la soluzione?
«Credo che al governo della Sardegna ci voglia qualcuno che non abbia niente da perdere nel fare le scelte. Forse in questo il professionismo della politica ha un problema perché se tra cinque anni uno si dovesse preoccupare di essere rieletto è molto più probabile che non pesterebbe un piede a nessuno piuttosto di immaginare che farebbe le scelte necessarie. Da questo punto di vista io non ho niente da perdere».
L'indipendenza in Sardegna, i suoi movimenti e partiti. Qual è la sua idea al riguardo?
«L'indipendentismo in Sardegna è un'esperienza che dura da diversi decenni e ha tre facce: tutt'e tre vogliono l'indipendenza ma conta il modo in cui si pensa di realizzarlo. La prima è a carattere nazionalista e si definisce per negazione rispetto all'Italia, con un linguaggio molto vicino a quello leghista e che tende a definire i sardi all'interno di una cornice concettuale e conflittuale. Il secondo filone è di tipo ideologico: quasi tutti i movimenti indipendentisti, in quanto movimenti di liberazione, vengono dalla sinistra extraparlamentare. Alcuni hanno mantenuto questa connotazione per cui non sognano solo la Sardegna indipendente ma indipendente-socialista. E questo fa capire come sia un doppio salto carpiato da un trampolino rotto. Esiste poi un filone dell'indipendentismo, da circa dieci anni, che nasce prima con la fondazione di Irs che si porta dietro alcune delle pastoie dell'indipendentismo nazionalista e un'organizzazione leaderistica di tipo gerarchico. Quello moderno ha fatto un salto e al momento si è incarnato solo in Progres che ha fatto una scissione da Irs proprio per portare avanti la riforma democratica, abbattere il meccanismo di leaderismo e creare una sorta di leadership orizzontale molto più vicina alle dinamiche di rete in cui una generazione come la mia si può riconoscere meglio».
Quali sono le potenzialità di Progres?
«Ha potenzialità dinamiche enormi, le stesse del lievito per la pasta. Non è destinato a diventare maggioritario in sé ma a dettare l'agenda a chiunque voglia diventare maggioritario. In questo senso io che sono indipendentista e appartengo a quel mondo non ho mai militato in nessun altro partito. Sono figlia di quella formazione e credo che quello che sta facendo Progres in questo momento con l'affidamento di questo mandato politico sia un gesto di lungimiranza da statisti. Cioè giocarsi la carta pesante sapendo di essere numericamente fragili ma ideologicamente molto forti».
L'autonomia potrebbe essere una soluzione per una svolta?
«Era insufficiente anche settant'anni fa, figuriamoci ora. E' come se i sardi abitassero in una sorta di "The Truman show" (film, ndr), in un'isola bellissima dove ci compiaciamo di definirci i più intelligenti, generosi o più bravi a fare questo o quello. Guardiamo l'orizzonte e ci sembra che l'autonomia ci possa portare molto al di là di quanto ci troviamo. In realtà nel momento in cui si dovesse esercitare tutta, ovvero tutte le quote di sovranità che l'autonomia ti consente, si vedrebbero i limiti, si toccherebbe il fondale e ci si renderebbe conto che l'orizzonte che si ha davanti è dipinto. Lo scopo di una candidatura come questa è usare tutte le quote possibili di sovranità che l'autonomia consente fino a mostrarne i limiti. Oggi il mio compito, se mi dovessi candidare, è arrivare fino all'estremo orizzonte. Tra cinque anni il compito di chi mi succederà sarà di trovare la porta di quell'orizzonte».
Cosa rappresentano queste elezioni?
«Sono un occasione d'oro. Possono essere determinanti per fare uscire l'indipendentismo dalla nicchia di preconcetti, a volte meritati perché ci sono diversi modelli di indipendentismo e chi sta fuori non è tenuto a conoscerne le differenze. Se non siamo riusciti a evidenziarle vuol dire che qualche errore di comunicazione l'abbiamo fatto anche noi. Queste elezioni sono un'occasione preziosissima. Il grosso del risultato politico non sarà valutato numericamente ma da come sarà percepito l'indipendentismo tra cinque anni da chi oggi non è indipendentista. Credo che questo sia un momento di accelerazione di un fenomeno che è una necessità storica per l'isola. Fra cinque anni niente sarà più lo stesso. Se lavoreremo bene in campagna elettorale può darsi che anche da aprile molte cose non saranno più le stesse».
Come giudica le divisioni che ci sono state in passato?
«L'indipendentismo è meno diviso della sinistra italiana. In tanti dicono che se tutti i movimenti volessero l'indipendenza si dovrebbero unire. Nessuno dice al Pd o al Pdl di unirsi. Si da per scontato che le persone abbiano il diritto di cercare lo stesso obbiettivo con metodi diversi e tutti lo possono fare tranne gli indipendentisti. Credo che agendo da più parti intercettiamo più sensibilità e alla fine ci si potrebbe ritrovare sullo stesso obbiettivo».
Commenti